Per molte ragioni la somministrazione del vaccino anti Covid-19 non consente di abbassare la guardia nelle strutture che ospitano soggetti fragili. Al contempo, mentre un vuoto normativo legittima il rifiuto di vaccinarsi, in Toscana i gestori delle Rsa non possono, per ragioni di privacy, chiedere agli operatori se si sono vaccinati o meno. Un problema già sollevato da Nicola Cariglia, presidente della Fondazione Turati, in un’intervista comparsa su La Nazione di Firenze lo scorso 17 gennaio.
Stanno destando attenzione nell’opinione pubblica i casi di nuovi focolai di Covid-19 in Rsa dove è stato già completato il ciclo della doppia vaccinazione. Il problema deriva da una doppia circostanza: un possibile 5% di popolazione che, secondo le statistiche e gli studi effettuati, non reagisce al vaccino, che infatti non viene dato con la copertura assicurata del 100%, e il fatto che anche una persona vaccinata può essere infettata dal virus senza per questo, grazie al vaccino, sviluppare la malattia. Questi soggetti, una volta contagiati, presenterebbero così una bassa carica virale per un lasso di tempo ristretto.
Per questa ragione la somministrazione del vaccino non può far abbassare il livello di guardia nelle strutture dove sono ricoverate persone fragili. Restano però irrisolte, soprattutto alla luce di queste considerazioni, le problematiche collegate alla decisione di chi, lavorando in Rsa, Rsd e strutture sanitarie, rifiuta di vaccinarsi.
È un tema che ha molteplici riflessi sul quale si registra un vuoto normativo che sulla base del secondo comma dell’art. 32 della Costituzione, «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», legittima il rifiuto di vaccinarsi. E questo nonostante nell’ordinamento vi sia una legge che obbliga alla vaccinazione il dipendente di un’azienda nei cui processi produttivi sia presente un agente patogeno che possa infettare le persone. La tesi, prevalente in dottrina, è che quell’obbligo di vaccinazione esiste per un virus che è “interno” al luogo di lavoro mentre il Covid è “esterno”.
L’analisi solo giuridica del problema non esaurisce però la questione perché per un’azienda che eroga prestazioni sanitarie il rifiuto di un dipendente di vaccinarsi, in presenza di una pandemia, ha molte altre implicazioni che impattano sui diritti degli altri dipendenti, dei pazienti e sul dovere dell’imprenditore di erogare le prestazioni sanitarie secondo i canoni stabiliti dall’Autorità sanitaria pubblica oltre che dell’appropriatezza. Il dipendente non vaccinato può infettare pazienti e dipendenti vaccinati che, anche se per effetto del vaccino risultano a bassa carica virale, devono comunque, per precauzione, essere tenuti isolati lasciandoli a casa. Questo può influire sulla possibilità dell’azienda di erogare nella maniera dovuta le prestazioni a cui è tenuta, anche perché in momenti di pandemia, come l’attuale, non è possibile reperire personale sanitario sostitutivo.
Il diritto di un singolo di scegliere di non vaccinarsi confligge quindi con il diritto alla salute degli altri, dipendenti e pazienti, e può impedire all’imprenditore sanitario di erogare nella maniera dovuta le prestazioni a cui tenuto.
È per tutte queste ragioni che si rende urgente un provvedimento di legge per rendere obbligatorio il vaccino almeno per tutte le persone che operano in ambito sanitario. Il tema, a gennaio scorso, era stato già sollevato dal presidente della Fondazione Turati, Nicola Cariglia, nell’intervista a Lisa Ciardi de “La Nazione” che riportiamo.
«Il vaccino? Diventi obbligatorio per chi lavora nelle Rsa» (di Lisa Ciardi, dal quotidiano La Nazione – Firenze del 17 gennaio 2021)
Il punto di vista dei privati: «Per la privacy non possiamo chiedere ai dipendenti se hanno dato il consenso»
FIRENZE – «Gli operatori delle Rsa scelgono di non vaccinarsi? Per le strutture è impossibile anche solo accertarlo». A denunciare il problema è Nicola Cariglia, presidente della Fondazione Filippo Turati Onlus, realtà nazionale che gestisce diverse strutture anche in Toscana. «Va detto, prima di tutto, che la situazione delle Rsa nella seconda ondata pandemica è stata e rimane molto più grave rispetto alla prima – spiega-. Abbiamo avuto più anziani infettati e conseguenze peggiori. Perché? Da quello che siamo riusciti a capire, il contagio nelle Rsa arriva da chi si sposta fra dentro e fuori ovvero dagli operatori. Non c’è alcuna negligenza: chi ha una vita sociale e si muove è più esposto a contatti e quindi a contagi. In questo contesto è chiaro che proteggere gli operatori è essenziale – continua Cariglia – e lo abbiamo sempre fatto con tutti gli strumenti disponibili e, peraltro, obbligatori: mascherine e tutti gli altri Dpi. Peccato che, al momento, non lo sia il vaccino, l’arma principale a nostra disposizione. Sembra paradossale eppure è così: non potremmo certo far lavorare qualcuno in Rsa senza mascherina ma non abbiamo strumenti di controllo sulla vaccinazione anti Covid. Non possiamo neppure chiedere agli operatori se l’abbiano fatta o meno».
Un problema collegato al sistema prenotazioni. «In altre regioni – continua Cariglia – le vaccinazioni al personale passano attraverso le strutture: sono le stesse Rsa a coordinare le prenotazioni, avendo il controllo della situazione. In Toscana invece i dipendenti devono prenotare autonomamente e, per le regole della privacy, noi non possiamo poi chiedere informazioni in merito. Servirebbe una presa di posizione chiara: chi non si vaccina non deve poter lavorare nelle Rsa e nelle strutture sanitarie a contatto con i pazienti e gli ospiti. D’altronde cos’è più importante? Il diritto all’obiezione del lavoratore o la salute delle persone assistite?».
La questione vaccini non è comunque l’unico problema per i gestori di Rsa. «Abbiamo avuto rincari enormi – conclude Cariglia – uno su tutti quello delle polizze assicurative. E stiamo affrontando una grave carenza di infermieri, Oss e altri operatori, che sono stati assorbiti dal pubblico. Ci stiamo rivolgendo all’estero e abbiamo dovuto persino presentare un ricorso al Tar (vincendolo) perché ci avevano bloccato l’assunzione di alcuni infermieri dall’Albania».