Su PensaLibero.it il giornalista Fabrizio Binacchi tratta il tema della casa e dell’abitare degli anziani, traendo spunto anche da un convegno realizzato dalla Fondazione Turati lo scorso anno. Ecco il testo del suo articolo.
Avvertenza: chi si commuove facilmente si prepari un fazzolettino. Non dimenticherò mai quegli sguardi dal terzo piano di case senza ascensore di nonne e nonni con difficoltà di movimento. E noi? E noi, niente, transitiamo. Passiamo oltre. Non dimenticherò mai quel racconto conturbante della nipotina che sentì queste parole della nonna: mi tolgono occhiali e dentiera, non vedo e non sento, ma intanto io sogno. Quello non me lo possono togliere. La quarta età è tra noi e noi facciamo quasi di tutto per ignorarla, rifuggirla, scansarla. Eppure è dietro l’angolo per chi ci arriva. Cura, rispetto, case protette, residenze attive, parchi dei ricordi: tutto bello. Ma non per tutti. Già parlarne può essere una “cosa”.
Dentiera, occhiali, sogni e sguardi dal terzo piano. Viaggio nell’isolamento.
Siamo sicuri che le nonne e i nonni che ci guardano dalla finestra di un terzo in centro a Bologna o Mantova a Firenze o Livorno, o da un terzo o sesto piano in viale Talenti o in via Pisana non siano solo curiosi del passeggio ma prigionieri in casa?
Non possiamo, non dobbiamo costringere i nostri nonni e le nostre nonne a stare alla finestra e guardare con nostalgia quello che accade lì in strada.
Un convegno a Pistoia promosso dalla Fondazione Turati sensibile all’argomento e al problema della vita degli anziani sugli appartamenti diventano prigioni per nonni fragili e difficoltà deambulatore ha messo in rilievo uno degli aspetti di maggiore rilevanza sociale delle nostre città: la libertà di vivere pienamente l’ambiente da parte di tutti.
È garantito a tutte e a tutti fare una passeggiata sotto casa se il nonno abita al terzo piano di un palazzo anni Venti senza ascensore? No! O a che prezzo il sì? Il tema del rapporto città anziani è una sfida di futuro. Più anziani, più fragili, più soli. Servono nuovi modelli abitativi che assicurino assistenza e contrasto alla solitudine.
(È la sintesi di un incontro pistoiese di Fondazione Turati onlus realizzato con la compartecipazione del Comune di Pistoia, il patrocinio della Società della Salute pistoiese e in collaborazione il Laboratorio Percorsi di secondo welfare di Milano. “L’abitare di anziani e fragili, verso una proposta di co-programmazione” ndr)
Non è uno scherzo, è un problema vero. E con gli anni può diventare il problema dei problemi. Diventiamo sempre più vecchi, i vecchi in molte città e in molti paesi saranno un numero molto più alto dei giovani e le case in cui abitano possono diventare delle prigioni.
Perché? Perché non hanno gli ascensori, e un anziano su tre con problemi motòri (cioè di movimento e di articolazione non di rombo da gran premio) preferisce non uscire e affidarsi ad altri per fare la spesa o far sbrigare faccende in cui non è necessaria la sua presenza.
Ci vorrebbe dunque un grande piano di adeguamento strutturale delle nostre case, come da tempo sottolineano anche gli Imprenditori delle Costruzioni, per consentire ai nostri nonni e alle nostre nonne che abitano al terzo al quarto e al sesto piano di uscire e andare al bar, fermarsi sotto il portico e bagolare con il conoscente, fermarsi a vedere cosa succede in un cantiere vicino, di andare all’edicola e comprare il giornale, fare vita sociale come se non avessero problemi al ginocchio e all’anca.
Le statistiche sono crudeli: nel giro di 30 anni in molte comunità gli over 65 saranno quattro volte gli under trenta, in altre solo (si fa per dire) tre volte ma l’emergenza non cambia. E’ una emergenza non solo economica perché come si può immaginare aumentano i carichi pensionistici e di assistenza, ma anche i carichi sociali perché un cosiddetto anziano con ridotta capacità di movimento autonomo, sviluppa una predisposizione piuttosto comprensibile a non uscire di casa se deve fare tre quattro rampe di scale. “Chi me lo fa fare di scendere per quattro piani, ma anche tre, e poi risalire altri 30 o quaranta gradini per andare a fare un giro al parco o prendere il giornale”.
Le case vecchie senza ascensori diventano o possono diventare automaticamente delle prigioni in città che imprigionano cittadini: non è una bella prospettiva.
Mi è capitato di entrare in un grande palazzo del centro storico di Bologna e solo per arrivare dal piano stradale al grande atrio colonnato, da dove si diramano i corridoi e le altre scale padronali, ho contato 12 gradini, anzi gradoni. E lì non c’è ascensore che tenga. Ma anche nei palazzi meno nobiliari e più popolari, le scale e l’assenza dell’ascensore sono un problema: case popolari attorno all’Ospedale Sant’Orsola sempre a Bologna con 16 gradini per rampa/piano non sono uno scherzo. Case di cento anni, abitazioni fatte tra le due guerre del secolo scorso e quindi con sistemi e requisiti che non prevedevano quello che sarebbe successo: e cioè che i nonni sarebbero stati più dei ragazzi, che le nonne sarebbero state più delle giovani.
Già la vecchiaia per molti è una mezza prigionia, evitiamo di farla doppia solo perché ci avvolge l’indolenza o non abbiamo idea da dove cominciare.
“Mi hanno tolto l’apparecchio acustico e non sento quasi niente. Mi hanno tolto la dentiera, mi danno da mangiare dei frullati, e non sento quasi più nessun gusto. Ho le sponde al letto, mi fanno scendere qualche volta. Ma sai cosa faccio? Chiudo gli occhi e sogno”.
Voce da una casa di riposo. Una delle tante delle nostre parti o di altre parti, non importa. Ovviamente sarà tutto regolare e sarà tutto da protocollo ma se una signora di quasi cento anni ha ancora ragione e sentimento, parola e discernimento perché non darle le ore di relazione sociale?
Se la casa è di riposo deve essere anche “casa” e deve consentire il “risposo” dell’età maturata non il riposo forzato del giorno uguale all’altro, riposo è anche rapporto con sé stessi oltre che sonno, sicurezza e sopravvivenza. La casa di risposo non può e non deve essere solo sopravvivenza. A sé stessi e agli altri.
Una volta questo Paese aveva un sistema di case per i giovani e case per gli anziani variamente distribuito e gestito da istituzioni diverse tra pubblico e pubbliche assistenze o privati generosi. Ora è diventato tutto economico. Le case per anziani erano spesso strutture lasciate da ricchi imprenditori o mecenati e agivano su base di accoglienza e di assistenza a livello umano e spesso religioso.
Ora anche qui è tutto o quasi economico. Tanto paghi tanto sei servito. Poco paghi poso sei servito. Anche una casa di riposo è diventata una azienda e quindi deve dovrebbe rispondere a criteri di economicità e redditività.
Per carità, princìpi giusti sulla carta, ma senza togliere la dentiera a una signora che magari vorrebbe togliersi lo sfizio di masticare una patata lessa o un pezzo di pane tenero, senza togliere l’apparecchio acustico per consentirle di ascoltare cosa dice la vicina.
L’economicità non può mangiare l’umanità. Diamoci una mossa: i giovani e gli anziani sono un patrimonio dell’umanità. Più di un ponte, più di un portico, più di un castello.
Fabrizio Binacchi
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