Dal Corrriere della Sera del 13 maggio u.s. riportiamo questo articolo di Mauro Marè e Pietro Reichlin sui conflitti e i contrasti di interessi fra le generazioni. Il tema è ormai nell’agenda politica. C’è da decidere cosa fare. Rafforzare i sistemi previdenziali a capitalizzazione? o piuttosto ridurre lo stock di pensioni in essere e future? aumentare la compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria in base al reddito?. Occorre discuterne, non serve mettere la testa sotto la sabbia.
Negli ultimi tempi il dibattito pubblico si è ampiamente concentrato sull’aumento delle disuguaglianze tra individui che appartengono a diverse classi sociali o professioni, ma pochi hanno notato l’esistenza di un drammatico aumento delle disuguaglianze tra le generazioni. Una recente indagine della Banca d’Italia sulla distribuzione della ricchezza finanziaria evidenzia che la coorte degli under 35 ha subito una riduzione della ricchezza di 15 punti percentuali, mentre quella degli individui tra 55 e 64 anni è aumentata di 10 p.p.. Impressionante l’aumento degli over 65, che sono passati dal 20 a più del 35% del totale. Più di un terzo della ricchezza italiana è in mano a individui in età avanzata e, se consideriamo anche la classe tra 55 e 64 anni, la percentuale sul totale diventa circa il 65%. E anche i dati sulla distribuzione dei salari per classi di età vanno in questa direzione.
Come spiegare questa enorme redistribuzione tra generazioni? Certamente la crisi ha contribuito, dati i tratti peculiari del nostro sistema sociale ed economico, ma il trend evidenziato dai dati ha origini più lontane e cause largamente strutturali, non solo congiunturali. Ha sicuramente pesato il dualismo del nostro mercato del lavoro, cioè la diversa dinamica dei salari e dei rischi occupazionali per classi di età, la crescita della quota di gettito che deriva dalle imposte sul lavoro, l’enorme rivalutazione delle rendite immobiliari verificatasi negli ultimi 30-40 anni (di cui gli anziani sono i principali beneficiari), la riduzione della quota dei giovani in rapporto alla popolazione complessiva e, infine, la lunga transizione del nostro sistema previdenziale verso il regime contributivo, che ha garantito agli anziani rendite generose e pensioni anticipate (spesso prive di copertura contributiva). Per correggere gli squilibri di ricchezza tra classi di età bisogna ridurre le imposte e il cuneo contributivo per i giovani, per accrescere l’occupazione, aumentare l’investimento in scuola e formazione, rendere più flessibile il mercato del lavoro.
Tuttavia, queste misure richiedono la mobilitazione di risorse imponenti (basterà la spending review?) e potrebbero non essere sufficienti. I dati della Banca d’Italia sono, infatti, un evidente campanello d’allarme per la solidità del nostro sistema di welfare. In assenza di una crescita sostenuta del reddito, la distribuzione delle risorse sarà sempre più squilibrata a svantaggio dei giovani. Ciò potrebbe determinare un conflitto generazionale sulla ripartizione della spesa sociale e del carico fiscale tra classi di età e, di conseguenza, minacciare l’intervento pubblico così come lo abbiamo conosciuto. Il problema non è nuovo e non riguarda solo l’Italia. Lo stesso allarme è stato lanciato recentemente da due autorevoli economisti americani, Kotlikoff e Marin, e, già cinquant’anni fa, Einaudi e Steve ci avvertivano con grande lucidità sul rischio di un conflitto generazionale. Tutti i sistemi di welfare dei Paesi Ocse sono sostanzialmente a ripartizione, anche se spesso accompagnati da un pilastro a capitalizzazione, più o meno sviluppato. Essi hanno senza dubbio consentito di raggiungere obiettivi importanti sul piano dei diritti sociali e dell’equità. Tuttavia, il tema del costo di queste macchine è stato per molto tempo trascurato. I sistemi a ripartizione funzionano bene solo con una demografia favorevole e una crescita economica sostenuta. Il vincolo di bilancio è molto semplice: un numero inferiore di attivi dovrà finanziare il welfare di un numero crescente d’individui per molti più anni. Se la quota di reddito/ricchezza dei giovani si riduce, e di molto, rispetto alle altre coorti, si abbassa drasticamente la loro capacità di finanziare qualsiasi prestazione a ripartizione.
I giovani avranno la voglia, e, soprattutto, la possibilità di finanziare questi oneri nel futuro? La domanda è legittima, perché i sistemi a ripartizione non determinano alcuna accumulazione di risorse: le pensioni sono pagate dai lavoratori, i diritti non sono acquisiti ma sono promesse scritte sulla carta! La stagione delle riforme strutturali è appena cominciata e partiti e sindacati dovrebbero interrogarsi senza tabù sul modo di correggere la nostra spesa sociale per far fronte ai futuri scenari demografici e di crescita. È il caso, ad esempio, di mettere in agenda un rafforzamento dei sistemi previdenziali a capitalizzazione, per evitare il trasferimento dell’onere pensionistico sulle generazioni future e la riduzione del cuneo contributivo? Potrebbe essere necessario intaccare parte dello stock di pensioni in essere o quello in via di maturazione? È opportuno aumentare la compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria in funzione del reddito individuale? Ci auguriamo che, su questi temi, sia possibile una soluzione cooperativa, anziché una guerra ideologica tra opposte fazioni.
Mauro Marè e Pietro Reichlin
dal Corriere della Sera del 13 maggio 2014