Pubblichiamo questo articolo scritto per “LibertaEguale” da don Antonio Cecconi, parroco dell’Unità Pastorale della Valgraziosa e in passato vicedirettore della Caritas Italiana. Il tema è il rapporto tra pubblico e privato sociale al tempo del Covid-19: secondo l’articolo, l’emergenza ha infatti contribuito a evidenziare alcuni aspetti problematici della relazione tra Stato e Terzo settore.
Il Covid-19 ha fatto emergere alcuni aspetti problematici della relazione tra “il pubblico” e “il privato sociale”. Intendendo con il primo termine tutto ciò che è lo stato nelle sue articolazioni: governo, regioni, autonomie locali; e col secondo, parzialmente intercambiabile con “terzo settore”, tutto ciò che attiene alle libere e associate iniziative dei cittadini, da distinguersi nettamente dal “privato” tout-court. Quest’ultimo organizza legittimamente attività miranti al profitto economico o di altra natura, indifferente al rischio che altri vengano privati (per coerente declinazione del verbo privare) di beni e opportunità; e forse una parte di ciò che non ha funzionato nella presa in carico della pandemia soprattutto in alcune parti d’Italia passa anche di qui.
Il privato sociale, invece, nasce e si sviluppa allo scopo di contribuire al bene comune, accrescere il capitale sociale, favorire condizioni e opportunità di una migliore qualità della vita della comunità e comunque di una parte ampia di cittadini, a cominciare dai più svantaggiati. Talvolta venendo a colmare le distanze delle persone dai servizi e dalle opportunità, supplendo le carenze che determinano o accrescono situazioni di povertà, disagio ed emarginazione; in non pochi casi su sollecitazione delle stesse istituzioni.
Sta di fatto che il pubblico e il privato sociale concorrono alle “finalità solidali” e alla “rimozione degli ostacoli economici e sociali” degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Alla luce di quanto sopra premesso, ecco una piccola rassegna di aspetti problematici della relazione pubblico/provato sociale emersi nella vicenda del Covid-19.
Reclutamento di personale sanitario
Il primo aspetto riguarda la carenza numerica di personale sanitario in ben precisi reparti ospedalieri deputati alla cura delle persone affette dal virus. Il servizio sanitario pubblico, alla ricerca di medici e infermieri disponibili, non ha esitato ad arruolare personale fino a quel momento operante nel privato sociale (inclusi molti servizi collegati con la chiesa cattolica).
La prospettiva dell’assunzione in pianta stabile nel settore pubblico è stata comprensibilmente accolta da molti operatori, con il conseguente affanno delle strutture in cui fino ad allora operavano. È il caso di quelle RSA che, da un giorno all’altro, si sono trovate prive di quel personale infermieristico che pure era decisamente strategico per fronteggiare il contagio a difesa delle persone accolte in tali strutture (e su una parte di esse sono stati anche “scaricati” anziani sintomatici per fare posto ad altri pazienti negli ospedali, con inevitabile e repentina diffusione del contagio).
In questo caso il pubblico ha agito da privato nella logica del “prima i nostri”, dimenticando che il privato sociale persegue finalità di benessere e di salute collettiva tanto quanto i servizi pubblici, soprattutto lì dove agisce in regime di convenzione e magari in ambiti e su territori in cui l’intervento va a supplire carenze delle istituzioni. Restando ben lontani dalla logica del “siamo tutti sulla stessa barca”, efficacemente proclamata da papa Francesco davanti a piazza San Pietro deserta – ma raggiungendo il mondo intero – la sera del 27 marzo.
Collette indette da istituzioni pubbliche
Un secondo aspetto di mancata armonizzazione tra pubblico e privato sociale, e diciamo pure di invadenza delle istituzioni statali (centrali e locali) sul terzo settore, è quello verificatosi col moltiplicarsi di appelli alla donazione in favore della sanità pubblica, tramite un’ampia propaganda della Protezione Civile e di molti altri soggetti, incluse alcune Regioni e Amministrazioni Comunali sia di destra che di sinistra. Ciò ha prodotto una forte contrazione dei contributi che molti cittadini sono soliti donare alle organizzazioni del terzo settore, operanti in vari ambiti, nonché a organismi religiosi tra cui la Caritas. Depotenziando l’operatività di una vasta gamma di enti non profit, non immediatamente collegati al sanitario ma operanti in molti ambiti della vita sociale, civile e culturale del paese: solidarietà con le fasce di popolazione più povere con interventi alimentari (mense e pacchi spesa); mense, dormitori e servizi doccia per senza dimora; progetti socioeducativi per i minori; solidarietà verso i migranti; assistenza ai detenuti in vista del reinserimento lavorativo e sociale… Senza dimenticare la cooperazione allo sviluppo attraverso le ONG e i missionari, la cura e la difesa dell’ambiente e del territorio, la tutela e la promozione dei beni artistici e culturali.
Tutti ambiti ora integrativi, ora sostitutivi rispetto alle competenze ma anche alle latitanze di Stato, Regioni e Comuni. Adesso una parte consistente delle donazioni, per l’impatto emotivo della pandemia, si è orientata a sostenere i propagandati interventi in ambito ospedaliero e sanitario: acquisto di strumenti, trasformazione di servizi, allestimento di nuove strutture. Il portavoce del Forum del Terzo settore ha dichiarato: “Un cambiamento di questa portata, nel momento critico che il Paese sta attraversando, avrà conseguenze drammatiche rispetto alla capacità delle organizzazioni di resistere e sopravvivere”. In altre parole: la raccolta di denaro a sostegno del servizio sanitario pubblico (di per sé è a carico della fiscalità generale) drenerà risorse altrimenti destinate in primo luogo a servizi che suppliscono croniche insufficienze delle istituzioni, o che progettano percorsi innovativi di solidarietà sociale. Ciò che è sociale si troverà ancora di più a fare la parte del partente povero nei confronti di ciò che è sanitario.
L’attenzione educativa verso i bambini e gli adolescenti
Il Dipartimento per le politiche della famiglia delle Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la collaborazione di vari Ministeri trai quali quello dell’Istruzione, ha emanato le “Linee guida per la gestione in sicurezza di opportunità organizzate di socialità e gioco per bambini ed adolescenti nella fase 2 dell’emergenza COVID-19”. Un corposo documento che i Comuni mettono a disposizione delle realtà associative e di volontariato del territorio, parrocchie comprese, al fine di promuovere occasioni di animazione estiva.
Proprio ciò che molti soggetti portano avanti da molti anni, attraverso i Campi solari e i Grest parrocchiali. Adesso la loro attuazione – per le raccomandazioni e addirittura le prescrizioni sia igienico-sanitarie, sia di presenza di “adulti formati” in misura di uno ogni cinque, sette o dieci minori – risulterà estremamente ardua o addirittura impraticabile.
In una riunione della Consulta delle associazioni del mio comune, viene comunicato che ai contributi pubblici a sostegno delle proposte estive, già previsti nelle precedenti annualità, dovrebbero aggiungersi ulteriori stanziamenti regionali e statali. Molti genitori e famiglie attraverso un questionario hanno già manifestato il desiderio e la speranza di poter far partecipare i figli alle attività che saranno organizzate.
Morale della favola estremizzata: quegli stessi bambini e ragazzi a cui lo stato ha scelto di tenere chiuse le porte delle scuole, si chiede alla generosa intraprendenza di associazioni, volontariato, parrocchie, gruppi scout e simili di accoglierli, organizzarli, socializzarli, igienizzarli, sorvegliarli… È esagerato affermare che lo stato chiede a soggetti esterni di fare quello che lui ha scelto di non far fare ai suoi dipendenti assunti e pagati? Era proprio impossibile riaprire le scuole per due o tre settimane di fine primavera quegli stessi minori che a inizio estate si intende affidare a operatori di incerto profilo?
Un rapporto alterato dalla subordinazione
Ultimo lampo di genio, che comunque sembra già spento dopo un’improvvisa fiammata: la proposta del ministro per le regioni on. Boccia di affidare a sessantamila volontari – con esibizione della maglietta che avrebbero dovuto indossare – compiti di vigilanza al fine di evitare assembramenti negli spazi pubblici. Volontari attinti da dove? Forse ce n’era un quantitativo stoccato in qualche magazzino ministeriale? L’idea di un generico volontariato reclutato e comandato dallo stato è l’ennesimo episodio di una politica che ha perso i contatti col paese reale e che, non sapendo organizzare quello che gli compete, vorrebbe comandare in casa altrui.
Ho messo in fila situazioni assai diverse tra loro, ciascuna della quali evidenzia un rapporto pubblico/privato improntato non al rispetto, all’interazione e all’integrazione – e neppure al riconoscimento delle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 della Costituzione – ma a una mentalità di subordinazione utilitaristica, frutto di una visione angusta delle relazioni sociali e incurante del danno che va a produrre nei confronti non di realtà estranee all’interesse generale, ma di entità della società civile che concorrono alla creazione del bene comune.
In un frangente in cui si continua a dire che “niente sarà più come prima”, è il caso di chiedersi se non rischiamo di farne uscire una società in cui ciò che è statale e pubblico – non per malvagità, ma semplicemente per insipienza – crea figli e figliastri, tutelati e meno tutelati, uguali e disuguali…
Prima o poi dovremo seriamente confrontarci sui modi di difendere la salute e di affrontare le malattie tutti insieme, di migliorare la sanità senza tagliare la spesa sociale, di contribuire tutti insieme alla crescita civile e culturale soprattutto delle giovani generazioni. Mettendo sempre al primo posto la dignità e i diritti di tutti e di ciascuno, e scegliendo con più onestà intellettuale di praticare quella “solidarietà politica, economica e sociale” che è un caposaldo della Costituzione.
Don Antonio Cecconi (libertaeguale.it)