Incontro con Mauro Corona e Toni Capuozzo alla Fondazione Turati di Gavinana, fra gli ospiti in cura riabilitativa.
“Chi ha la fortuna di camminare non lo fa più, ma c’è anche chi vorrebbe farlo e non può”. Un Mauro Corona che non ti aspetti, quello ascoltato ieri a Gavinana in una Fondazione Turati che aveva appena finito di inaugurare i nuovi, ristrutturati, locali al terzo piano: le camerette, molte singole e le altre con un massimo di due letti, per ospitare persone in cura riabilitativa dopo incidenti o malattie.
Parlava, Corona, insieme a un volto televisivo, anche questo famoso, del giornalismo da inviati in zone di guerra e dunque di sofferenza: Toni Capuozzo. Entrambi introdotti dalla lettura di due brani dai rispettivi ultimi volumi (uno – quello sui marò – è un best seller; l’altro – “La via del sole” – ha le caratteristiche per diventarlo): a leggere Monica Menchi, attrice. A introdurre e chiudere il tutto, con sobrietà, il presidente della “Turati”: Nicola Cariglia. Ma, inutile nasconderlo, tutta l’attenzione di invitati e ospiti era per loro: per capire come se la sarebbero cavata l’uomo della montagna e l’inviato delle reti Mediaset a dire qualcosa di sensato in un luogo come questo, nella parte bassa di un paese che tutti ricordano per la battuta di Maramaldo.
Entrambi hanno puntato sulle gambe: quelle sane che consentono di camminare, arrampicarsi, girare il mondo e quelle colpite da un incidente o da una malattia. Gambe che non hanno bisogno di attenzioni particolari e gambe che chiedono di essere riabilitate. “A volte mi scopro a pensare – racconta Corona – come potrei reagire se qualcosa del genere capitasse a me: non so come mi comporterei, ma so come sono importanti, e da aiutare, spazi come questo, dove la riabilitazione incontra l’aspetto tecnico-medico ma anche quello psicologico. Cercherò di andare più spesso nei luoghi dove le persone soffrono – ha chiuso l’alpinista – anche solo per portare una carezza. O anche solo per restare in silenzio”.
Capuozzo ha portato il suo lavoro: “inviato di guerra” (definizione che, comprensibilmente, non gli garba molto). Ha raccontato anche lui di amputazioni causate da bombe e mine, di protesi e dolore. Ha parlato su ciò che, di terribile, vide nella Sarajevo assediata. E di quando, con l’operatore, filmavano tutto l’orrore possibile salvo poi, rientrati nella camera d’albergo, fare i turni in bagno per vomitare sapendo di non poter dimenticare. Il camminare, ci ha detto Capuozzo anche appellandosi al grido evangelico di “alzati e cammina”, come “forma più simbolica e vera di libertà e di autonomia, di dignità”.
Mauro Banchini (latrebisonda.it)